Nel film L’eclisse (1962),
Michelangelo Antonioni tracciò la mappa sentimentale di quell’Italia che
affrontava le sfide dell’Europa rinata dopo le Guerre mondiali. Vittoria (una
splendida Monica Vitti) tagliava la relazione col suo fidanzato Riccardo, un
intellettuale di sinistra (Paco Rabal) e ne ingaggiava una nuova con Piero, un
promettente agente di cambio (Alain Delon): tutta una metafora dei nuovi
orientamenti. L’ingenua umanità di Vittoria però riusciva a strappare Piero (a
lungo?) dall’agitazione senza posa propria del mondo degli affari: la scena in
cui l’innamorato lascia squillare i telefoni e preferisce immergersi nell’evocazione
dell’ultimo incontro con Vittoria ci permette di sperare in una piena
guarigione dai mali del mercato.
La versione cupa della storia era stata girata due anni prima da Federico
Fellini, come racconto quasi indipendente all’interno de La dolce vita. Il protagonista Marcello (Mastroianni) visitava un suo
caro amico da nome Steiner (Alain Cuny), intellettuale raffinato e benestante,
marito amante e padre di due figli incantevoli. Più tardi, avvilito dal divario
fra le sue aspirazioni esistenziali e la viltà del mondo circostante e
ossessionato dalla possibilità di una strage nucleare, Steiner uccideva i bimbi
per spararsi poi in testa. “Forse aveva soltanto paura”, bisbigliava l’abbattuto
Marcello al commissario di polizia, “paura di se stesso, di noi tutti”.
Entrambi i racconti (amoroso ne L’eclisse
e tragico ne La dolce vita)
furono girati a Roma nel quartiere dell’EUR, reso molto adatto dall’architettura
funzionale, desolata e geometrica, simboleggiata dal Fungo – serbatoio idrico, dal
1989 contenente un restaurato ristorante panoramico, che si distingue dalla grande
finestra della villa di Riccardo e dal balcone dell’appartamento di Steiner. Questo
comune riferimento architettonico, non saprei dire fino a quale punto
consapevolmente condiviso, non era lì per caso. I frutti dello sviluppo economico
e gli ingranaggi messi in moto dalle dinamiche neocapitalistiche guardavano
ormai verso i due traguardi: quello individualistico della gara e del mercato,
che nonostante tutto poteva venir redento (così nel film di Antonioni) e
quell’altro della frattura insormontabile, della ferita che non guarisce più (così
nel racconto su Steiner nel film di Fellini). Proprio in quegli anni, Pier
Paolo Pasolini lasciava di vedere delle lucciole sui colli di Roma. Vi scorgerebbe
una metafora della crescente opacità dei tempi, ormai sotto il fascismo del consumo; ne parlerebbe in
un articolo otto mesi prima di essere assassinato.
Cinquanta anni dopo, in questa giornata elettorale, non sembra evidente che
le incertezze di allora siano state superate. Le ferite inflitte nel dopoguerra
dal neocapitalismo trionfante sono state riaperte (oppure non si erano mai
chiuse?) dalla crisi evidenziata all’interno dei Partiti e resa ancora più
lacerante dalla debolezza di una politica in balia dei mercati. In tutto ciò
Berlusconi e la sua opera (pensiamo a Tele Cinque e la sua torva proiezione di
mediocrità e bassezza) sono diventati il simbolo dei gravi rischi che
minacciano una cultura, quella europea, che proprio nell’Italia trovò uno dei
suoi punti di leva più riusciti: nella vergognosa sintesi dell’allora ministro di
Economia Giulio Tremonti, “di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un
panino alla cultura e comincio dalla Divina
commedia” (14 ottobre 2010). Ne è la conseguenza il tedio di una
cittadinanza logorata e la smorfia comprensibile ma spesso non dignitosa dei grillini.
L’Italia è oggi l’epitome del meglio e del peggio alloggiati
nell’essere della nostra Europa. Oggi come non mai siamo consapevoli che i
nostri destini (degli spagnoli, dei tedeschi, dei francesi, degli europei
insomma) sono legati; che ciò che avviene nel bel Paese riflette le luci e le ombre sotto le quali si gioca il
futuro di un lascito affidato a noi: quello dei secoli di affanni collettivi
–patti, guerre, scambi, influssi, odio, ammirazione– che sono sfociati
nell’Unione: una realtà oramai scarsa e insufficiente, un primo passo che va
seguito da altri. Nei confronti degli incubi sorti dal sonno degli ultimi
cinquant’anni, Europa contiene un destino la cui alternativa non possiamo
accettare. E tuttavia è ancora un compito incerto: «Nel mezzo del cammin di
nostra vita», si dice in quel libro che non sfama, «mi ritrovai per una selva
oscura, ché la diritta via era smarrita».
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Nell’immagine:
fotogramma de L’eclisse, di
Michelangelo Antonioni (Italia, 1962). I versi di Dante Alighieri sono stati
tratti dalla Divina commedia, inizio
del Canto primo.
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