lunes, 25 de febrero de 2013

Italia, cinquant'anni dopo























Nel film L’eclisse (1962), Michelangelo Antonioni tracciò la mappa sentimentale di quell’Italia che affrontava le sfide dell’Europa rinata dopo le Guerre mondiali. Vittoria (una splendida Monica Vitti) tagliava la relazione col suo fidanzato Riccardo, un intellettuale di sinistra (Paco Rabal) e ne ingaggiava una nuova con Piero, un promettente agente di cambio (Alain Delon): tutta una metafora dei nuovi orientamenti. L’ingenua umanità di Vittoria però riusciva a strappare Piero (a lungo?) dall’agitazione senza posa propria del mondo degli affari: la scena in cui l’innamorato lascia squillare i telefoni e preferisce immergersi nell’evocazione dell’ultimo incontro con Vittoria ci permette di sperare in una piena guarigione dai mali del mercato.

La versione cupa della storia era stata girata due anni prima da Federico Fellini, come racconto quasi indipendente all’interno de La dolce vita. Il protagonista Marcello (Mastroianni) visitava un suo caro amico da nome Steiner (Alain Cuny), intellettuale raffinato e benestante, marito amante e padre di due figli incantevoli. Più tardi, avvilito dal divario fra le sue aspirazioni esistenziali e la viltà del mondo circostante e ossessionato dalla possibilità di una strage nucleare, Steiner uccideva i bimbi per spararsi poi in testa. “Forse aveva soltanto paura”, bisbigliava l’abbattuto Marcello al commissario di polizia, “paura di se stesso, di noi tutti”.

Entrambi i racconti (amoroso ne L’eclisse e tragico ne La dolce vita) furono girati a Roma nel quartiere dell’EUR, reso molto adatto dall’architettura funzionale, desolata e geometrica, simboleggiata dal Fungo – serbatoio idrico, dal 1989 contenente un restaurato ristorante panoramico, che si distingue dalla grande finestra della villa di Riccardo e dal balcone dell’appartamento di Steiner. Questo comune riferimento architettonico, non saprei dire fino a quale punto consapevolmente condiviso, non era lì per caso. I frutti dello sviluppo economico e gli ingranaggi messi in moto dalle dinamiche neocapitalistiche guardavano ormai verso i due traguardi: quello individualistico della gara e del mercato, che nonostante tutto poteva venir redento (così nel film di Antonioni) e quell’altro della frattura insormontabile, della ferita che non guarisce più (così nel racconto su Steiner nel film di Fellini). Proprio in quegli anni, Pier Paolo Pasolini lasciava di vedere delle lucciole sui colli di Roma. Vi scorgerebbe una metafora della crescente opacità dei tempi, ormai sotto il fascismo del consumo; ne parlerebbe in un articolo otto mesi prima di essere assassinato.

Cinquanta anni dopo, in questa giornata elettorale, non sembra evidente che le incertezze di allora siano state superate. Le ferite inflitte nel dopoguerra dal neocapitalismo trionfante sono state riaperte (oppure non si erano mai chiuse?) dalla crisi evidenziata all’interno dei Partiti e resa ancora più lacerante dalla debolezza di una politica in balia dei mercati. In tutto ciò Berlusconi e la sua opera (pensiamo a Tele Cinque e la sua torva proiezione di mediocrità e bassezza) sono diventati il simbolo dei gravi rischi che minacciano una cultura, quella europea, che proprio nell’Italia trovò uno dei suoi punti di leva più riusciti: nella vergognosa sintesi dell’allora ministro di Economia Giulio Tremonti, “di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura e comincio dalla Divina commedia” (14 ottobre 2010). Ne è la conseguenza il tedio di una cittadinanza logorata e la smorfia comprensibile ma spesso non dignitosa dei grillini.  

L’Italia è oggi l’epitome del meglio e del peggio alloggiati nell’essere della nostra Europa. Oggi come non mai siamo consapevoli che i nostri destini (degli spagnoli, dei tedeschi, dei francesi, degli europei insomma) sono legati; che ciò che avviene nel bel Paese riflette le luci e le ombre sotto le quali si gioca il futuro di un lascito affidato a noi: quello dei secoli di affanni collettivi –patti, guerre, scambi, influssi, odio, ammirazione– che sono sfociati nell’Unione: una realtà oramai scarsa e insufficiente, un primo passo che va seguito da altri. Nei confronti degli incubi sorti dal sonno degli ultimi cinquant’anni, Europa contiene un destino la cui alternativa non possiamo accettare. E tuttavia è ancora un compito incerto: «Nel mezzo del cammin di nostra vita», si dice in quel libro che non sfama, «mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita».

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Nell’immagine: fotogramma de L’eclisse, di Michelangelo Antonioni (Italia, 1962). I versi di Dante Alighieri sono stati tratti dalla Divina commedia, inizio del Canto primo. 

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