jueves, 27 de marzo de 2025
L'ombrívol miratge de la guerra justa
jueves, 6 de marzo de 2025
València, Kaltlufttropfen, Staatsbürgerschaft: Manifest der Dankbarkeit
Die
Hymne fängt diesen Geist in schönen Versen ein: „Tots a una veu, / germans,
vingau / Ja en el taller / i en el camp remoregen / càntics d’amor, / himnes de
pau“ („Alle mit einer Stimme, / Brüder, kommt / Schon in der Werkstatt / und
auf dem Feld erklingen / Gesänge der Liebe, / Hymnen des Friedens“). Die Sehnsucht nach Gemeinsamkeit wird zu Musik und
führt zum Frieden: Nur der Frieden schafft die Rahmenbedingung, in der jeder
einzelne Mensch in einer Gesellschaft so leben kann, wie er es für wert erachtet.
Deshalb und trotz allem wird sich der Friede seinen Weg bahnen; und wir können
behaupten, so Kant, dass dies mehr ist als eine tröstliche Träumerei.
Am ersten Wochenende nach der Katastrophe in València gehörte ich zu einer der Gruppen von Freiwilligen, die in dem betroffenen Gebiet tätig waren. Von der Generalitat einberufen, waren wir bereits gegen neun Uhr in einem der Dörfer. Die kurze Busfahrt – weniger als eine Viertelstunde – führte von der futuristischen Umgebung der Stadt der Künste und der Wissenschaften zu trostlosen Straßen, versunken im Schlamm und gespickt voll mit nutzlos gewordenen Gegenständen. Die Umleitung des Flusses Túria, die am Ende der 1960er Jahre vorgenommen worden war, bewirkte, dass die Hauptstadt eine reißende Sturzflut, die für ihre orkanartige Zerstörungskraft ungewöhnlich war, unbeschadet überstand. Die südlichen Dörfer jedoch trugen die Hauptlast an menschlichen und materiellen Verlusten.
Wir waren den ganzen Vormittag in einer Straße und hatten eine ganz einfache Aufgabe: Schlamm und Müll zu entfernen. Es war eine arbeitswillige Gruppe. Nach kurzer Orientierungslosigkeit nahm jeder seinen Platz ein: die einen mit Besen, die anderen mit Schaufeln oder Eimern; dann führte jeder seine Aufgabe in der Müllsammelkette aus. Es ist beeindruckend zu sehen, wie sich menschliche Gruppen selbst organisieren, in einer Art spontaner Anpassung, die in unserer biologisch-evolutionären Geschichte ihre Wurzeln hat.
Aber es war etwas anderes, das meine Aufmerksamkeit erregte. In der Gruppe gab es viele verschiedene Akzente, aus unterschiedlichen Regionen und Ländern.
Auf
der Rückfahrt habe ich alle Teilnehmer nach ihrer Herkunft gefragt. Zu meiner
Überraschung kam weniger als die Hälfte (27) aus València. Die übrigen 31 kamen
aus anderen spanischen autonomen Gemeinschaften (4) und ebenso viele (27) aus
anderen Ländern. Aus vielen Ländern. In alphabetischer Reihenfolge kamen sie
aus Bolivien, Brasilien, Ecuador, Frankreich, Italien, Kolumbien, Mexiko, Österreich,
Paraguay, dem Vereinigten Königreich, den Vereinigten Staaten, der Türkei, der
Ukraine, Venezuela und Weißrussland. In diesem Bus – mit nur 58 Fahrgästen –
saßen Menschen aus sechzehn Ländern: eine kleine UNO!
Auf
dem Heimweg, in der Nähe des Wissenschaftsmuseums, unterhielt ich mich mit
einer Familie kolumbianischer Herkunft, einer Mutter mit drei Kindern, die ebenfalls
im Bus saß. Die Mutter kam vor zwanzig Jahren mit zwei Kindern hierher, die
Tochter wurde hier geboren. Einer der Söhne sagte mir mit einem breiten
Lächeln: „València ist unser Zuhause. Wir leben gerne hier. Wir wollen auf jede
erdenkliche Weise helfen“.
Und
so ist die Generalitat zu einem Ort geworden, an dem viele Menschen aus
der Ferne willkommen sind. Zu denjenigen, an die der Hymnus heute gerichtet
ist, gehören Menschen mit unterschiedlichen Akzenten, unterschiedlicher
Hautfarbe und unterschiedlichem kulturellen Hintergrund. Und sie waren da und
sammelten Schlamm von einer Straße auf, zu der sie wahrscheinlich nie mehr
zurückkehren würden, und sie taten es, ohne etwas dafür zu bekommen: gratis
et amore.
In einer Zeit schwerwiegender internationaler Konflikte, eines Rückschritts in der demokratischen Entwicklung in nicht wenigen Ländern, einer Stagnation im Kampf gegen die Armut und angesichts historischer Herausforderungen wie dem Klimawandel, gibt es vieles, was uns eint. Dieser Bus, der an einem Novembermorgen eine Handvoll Menschen zusammenbrachte, zeigt eine dauerhafte Veränderung in der Gestaltung unserer Gesellschaften. Ihre Botschaft erklingt mit einer Stimme in den unterschiedlichen und schönen Akzenten der Orte, an denen wir geboren wurden. Und dieser Artikel wird zu einem Manifest der Dankbarkeit.
València: manifesto di gratitudine
L’inno
cattura questo spirito in bellissimi versi: “Tots a una veu, / germans, vingau /
Ja en el taller / i en el camp remoregen / càntics d’amor, / himnes de pau” (“Tutti
a una voce, / fratelli, venite. / Già nell’officina / e in campagna risuonano /
cantici d’amore, / inni di pace”). Eleva a musica il desiderio di comunanza e
sottolinea l’aspirazione alla pace: soltanto la pace è la cornice in cui ogni persona
può vivere in società nel modo la cui scelta ha motivi di valutare. Perciò, e
nonostante tutto, la pace si farà strada. E possiamo affermare, sottolinea
Kant, che questa è più di una fantasticheria consolatoria.
Il
primo fine settimana dopo la catastrofe di València, facevo parte di uno dei
gruppi di volontari che lavoravano nella zona colpita. Convocati dalla
Generalitat, verso le nove eravamo già in uno dei villaggi. Il breve viaggio in
autobus – meno di un quarto d’ora – aveva tracciato un percorso straziante dai
dintorni futuristici della Città delle Arti e delle Scienze a strade desolate,
disseminate di fango e oggetti inutili. La deviazione del fiume Túria,
realizzata alla fine degli anni Sessanta, permise alla capitale di uscire indenne
da un temporale furioso, insolito per la sua forza distruttiva simile a un
uragano. Le città al sud dell’area metropolitana hanno sopportato il peso
maggiore in termini di perdite umane e materiali.
Siamo stati lì tutta la mattina, in una unica strada, con un compito molto semplice: rimuovere fango e rifiuti. Era un gruppo volenteroso. Dopo un po’ di disorientamento, ogni membro ha presto preso il suo posto: alcuni con le scope, altri con le pale o i secchi per scaricare; poi, ognuno ha svolto il suo compito nella catena di raccolta dei rifiuti. È bello vedere come i gruppi umani si organizzano, in una sorta di adattamento al volo che affonda le sue radici nella nostra storia biologico-evolutiva.
Ma è stato un altro aspetto a catturare la mia attenzione. Nel gruppo c’erano molti accenti diversi, provenienti da regioni e latitudini diverse.
Durante
il viaggio di ritorno, ho chiesto a tutti la loro origine. Con mia sorpresa ho
costatato che meno della metà (27) proveniva da València. I restanti 31 provenivano
da altre comunità autonome spagnole (4) e, in numero equivalente (27), da altri
Paesi. Da molti Paesi. In ordine alfabetico, provenivano da Austria,
Bielorussia, Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Francia, Italia, Messico,
Paraguay, Regno Unito, Stati Uniti, Turchia, Ucraina e Venezuela. Su quell’autobus
– appena 58 passeggeri – c’erano persone provenienti da sedici Paesi: una
piccola ONU!
Già
arrivati, vicino al Museo delle Scienze, ho chiacchierato con una famiglia di
origine colombiana – madre e tre figli – che era anche sul pulmino. La madre era
arrivata vent’anni fa con due figli; la figlia era nata qui. Uno dei figli mi
ha detto, con un grande sorriso: “València è la nostra casa. Ci piace vivere
qui. Vogliamo aiutare in ogni modo possibile”.
E
così la Generalitat è arrivata ad abbracciare molti che vengono da lontano. I fratelli
e le sorelle a cui si rivolge oggi l’inno sono persone con accenti diversi, con
colori della pelle diversi, con retroterra culturali diversi. Ed eccoli lì, a
raccogliere fango da una strada in cui probabilmente non torneranno mai più, e
a farlo senza ricevere nulla in cambio: gratis et amore.
In un momento di gravi conflitti internazionali, di arretramento della salute democratica di non pochi Paesi, di stagnazione nella lotta contro la povertà e di fronte a sfide storiche come il cambiamento climatico, c’è molto che ci unisce. Quell’autobus, che ha riunito una manciata di persone in una mattina di novembre, mostra un cambiamento duraturo nella forma delle nostre società. Il suo messaggio, ad una sola voce, risuona nei diversi e begli accenti dei luoghi in cui siamo nati. E quest’articolo diventa un manifesto di gratitudine.
Articulo pubblicato il 20 dicembre 2024 sulla rivista Confronti (Roma). Per la revisione della sua traduzione all’italiano, l’autore ringrazia vivamente Laura Pisa. L'originale apparse il 13 novembre sul quotidiano spagnolo Levante. Immagine: opera di Antonio Muñoz Degraín dipinta fra gli anni 1912 e 1913 e conservata nel Museo delle Belle Arti di València: "Amore di madre".
domingo, 15 de diciembre de 2024
Utopia: eixa potent idea sense lloc
Utopia és un lloc inexistent. La contracció del prefix grec ou, indicador de negativitat, deixa el substantiu topos (lloc) desarrelat de cap ubicació possible. Així ho concebé Thomas More quan encunyà el terme, el 1516, en llatí modern. En la literatura valenciana hi ha constància del seu ús ja durant el segle XIX. D’aleshores ençà ha esdevingut la xifra semàntica per a al·ludir a una societat ideal, que no es troba enlloc. I, tanmateix, les utopies es troben per tot arreu.
Les idees que han introduït novetats de progrés en la història eren inicialment utopies perquè apuntaven a horitzons inexistents i ambiciosos alhora. Ho era el projecte del frare Joan Gilabert Jofré, en una societat on les persones amb desequilibris psíquics venien desateses, quan endegà el primer hospital psiquiàtric d’Occident; la idea d’August H. Franke quan creà escoles a Halle per a acollir i educar milers d’infants orfes, obrint així el camí a la cura institucional i sistemàtica del jovent; la visió dels jesuïtes quan idearen les reduccions, en la regió del Riu de la Plata, on els indígenes conreaven formes d’autogestió comunitària que milloraven qualitativament la seva forma de vida; també ho era el somni solidari de Teresa de Calcuta quan començà a fer-se càrrec dels pàries a la Índia, arrossegant rere si un blanc seguici de dones i homes que transformarien el teixit social.
Quan una utopia troba el seu lloc, deixa de ser-ho. Llavors s’embruta amb les condicions empíriques: esdevé concreta, a vegades defectuosa, sempre limitada en la seva determinació. Tot i això, constitueix una realitat magnífica, que produeix esperança i invita a sumar-s’hi. La consciència utòpica, així ho pensà Ernst Bloch, és l’horitzó propi de l’ésser humà.
Hi ha utopies que –com al gravat de Francisco de Goya El somni de la raó produeix monstres– s’han tornat boges. Les anomenem distopies. La ficció dels segles XX i XXI, que hereta la implosió de la narrativa del progrés històric rere les guerres mundials, forneix exemples d’aquests somnis trets de polleguera. És distòpica la societat on tothom ve vigilat pel Gran Germà, tal i com es descriu a la novel·la de George Orwell 1989; l’obra de Margaret Atwood El conte de la serventa, que recrea la deriva cap a una societat on les dones fèrtils són emprades com a eines reproductores al servici de l’elit; o la sèrie televisiva L’home del castell, ideada per Frank Spotnitz a partir d’un relat de Philip K. Dick, on s’imagina com hauria sigut el món si Alemanya i Japó haguessin guanyat la segona guerra mundial.
Una mateixa ficció pot ser distòpica i utòpica alhora. En una Àustria enverinada per l’animadversió envers els jueus, Hugo Bettauer escrigué una novel·la –tot seguit esdevinguda film–, La ciutat sense jueus, on imaginava què succeiria si vinguessin expulsats: en seguia el col·lapse de la vida social i cultural; tothom acabava per adonar-se’n; el batlle de la ciutat els invitava a tornar-hi i es produïa la reconciliació. Bettauer fou assassinat el 1925 per un fanàtic nazi. El 2023, en un debat televisiu, una xiqueta preguntà a un líder del partit FPÖ, Gottfried Waldhäusl, què succeiria si els estrangers no haguessin sigut rebuts. Ell respongué: «Aleshores Viena seria encara Viena». El diari Der Standard publicà llavors una projecció estadística: si els estrangers se n’anessin, tant l’administració pública com els serveis de salut col·lapsarien. La vella Europa precisa treballadors. Tanmateix, el debat al voltant de la immigració ha assolit cotes d’acritud inèdites. El passat 1 de setembre, les eleccions regionals a Turíngia i Saxònia mostraren un ascens de l’extrema dreta desconegut del període d’entreguerres ençà.
Quina podria ser la utopia dels nostres dies? La resposta es declina en plural: n’hi ha moltes de possibles. Voldria referir-me’n ací a una: la utopia de la fraternitat cosmopolita.
En Cap a la pau perpètua (1795), Immanuel Kant aborda les condicions per a una pau duradora. Hi contempla pressupostos previs (articles preliminars) i condicions estables (definitius). El tercer article definitiu inclou que cap poble ha de poder ser envaït, comprat o desposseït per un altre. Kant era conscient que la pràctica colonialista conculca eixa condició. De fet, les formes de colonialisme s’han succeït tot passant des de la conquesta –com en els Imperis espanyol o portuguès– a la dependència econòmica, com ara en les Companyies britànica o neerlandesa de les Índies orientals. Rere la segona guerra mundial, mentre a Europa occidental s’hi assolia cotes de benestar inèdites i malgrat indicis de millora en la distribució global de la riquesa, l’escletxa entre els més rics i el més pobres no ha fet sinó acréixer-se. En no pocs indrets africans, americans i asiàtics això ha vingut acompanyat de guerres civils, radicalització fonamentalista i generalitzada corrupció política. Efecte col·lateral dels desequilibris econòmic, social i polític ha sigut l’onada migratòria a què assistim. Les escenes trasbalsadores viscudes al Mediterrani –pasteres que naufraguen al mar dels creuers de luxe– s’han fet acostumades.
És al Mediterrani que es juga simbòlicament la utopia de la fraternitat cosmopolita. Per ço mateix, aquest mar d’antiga memòria, culla de la civilització europea, pot esdevenir laboratori de noves utopies. Per a que l’horitzó ideal, però, cristal·litzi en realitats empíriques, limitades i efectives alhora, cal posar-hi peus. Aquests poden provenir de l’empenta de grups socials i han de ser recolzats pels Estats.
En tenim exemples engrescadors. Entre ells es troben les iniciatives de l’Institut Social del Treball a València, des de programes de formació adreçats a persones immigrants a cases d’acollida i projectes per a l’empoderament personal; el projecte Erasmus+ MEDITerraNeW, cofinançat per la Unió Europea, concebut com a plataforma d’intercanvi d’experiències al voltant de la migració i la inclusió social; o el projecte educatiu Living Peace International, que promou a les escoles la reflexió al voltant de la pau. La creixent receptivitat social cap al treball de les ONGs, el seu recolzament tributari per part dels Estats i la col·laboració amb els ajuntaments hi aporten senyals positius. La solidaritat és una dinàmica on tots guanyem: i és que el somni de la ciutat autàrquica, aïllada, és una distopia.
Deia el bisbe brasiler Hélder Câmara que un mode per a esperonar la imaginació solidària del jovent és regalar a cada nen, a cada nena, un mapamundi. Com són de grans el món i els seus reptes...! La utopia, a tall de clau del pensar, ens entrena per a allò millor: és eixa potent idea que crea realitats magnífiques.
Utopía: esa potente idea sin lugar
Utopía es un lugar inexistente. La contracción del prefijo griego ou, índice de negatividad, deja el sustantivo topos (lugar) desarraigado de cualquier ubicación posible. Así lo concibió Tomás Moro cuando acuñó el término, en 1516, en latín moderno. En la literatura valenciana hay constancia de su uso ya durante el siglo XIX. Desde entonces se ha convertido en indicador semántico para aludir a una sociedad ideal, que no se encuentra en ninguna parte. Y, sin embargo, las utopías se hallan por todos sitios.
Las ideas que han introducido novedades de progreso en la historia eran inicialmente utopías: apuntaban a horizontes inexistentes y, a la vez, ambiciosos. Lo era el proyecto del fraile Joan Gilabert Jofré, en una sociedad donde las personas se desatendía a las personas con desequilibrios psíquicos, cuando puso en marcha en Valencia el primer hospital psiquiátrico de Occidente; la idea de August H. Franke cuando creó escuelas en Halle para acoger y educar a miles de niños huérfanos, abriendo así el camino al cuidado institucional y sistemático de la juventud; la visión de los jesuitas cuando idearon las reducciones en la región del Río de la Plata, donde los indígenas cultivaban formas de autogestión comunitaria que mejoraban cualitativamente su forma de vida; también lo era el sueño solidario de Teresa de Calcuta cuando empezó a hacerse cargo de los parias en la India, arrastrando tras de sí a un blanco séquito de mujeres y hombres que transformarían el tejido social.
Cuando una utopía encuentra su lugar, deja de serlo. Entonces se ensucia con las condiciones empíricas: se vuelve concreta, a veces defectuosa, siempre limitada en su determinación. Y, con todo, constituye una realidad magnífica, que produce esperanza e invita a sumarse a ella. La conciencia utópica —así lo piensa Ernst Bloch— es el horizonte propio del ser humano.
Hay utopías que, como en el grabado de Francisco de Goya El sueño de la razón produce monstruos, se han vuelto locas. Las llamamos distopías. La ficción de los siglos XX y XXI, que hereda la implosión de la narrativa del progreso histórico tras las guerras mundiales, proporciona ejemplos de estos sueños sacados de quicio. Es distópica la sociedad donde todo el mundo viene vigilado por el Gran Hermano, tal y como se describe en la novela de George Orwell 1989; la obra de Margaret Atwood El cuento de la sirvienta, que recrea la deriva hacia una sociedad donde las mujeres fértiles vienen utilizadas como instrumentos reproductivos al servicio de la élite; o la serie televisiva El hombre en el castillo, ideada por Frank Spotnitz a partir de un relato de Philip K. Dick, donde se imagina cómo habría sido el mundo si Alemania y Japón hubiesen ganado la segunda guerra mundial.
Una misma ficción puede ser distópica y utópica a la vez. En una Austria envenenada por la animadversión hacia los judíos, Hugo Bettauer escribió una novela que en seguida fue llevada a la gran pantalla: La ciudad sin judíos. En ella imaginaba qué sucedería si fuesen expulsados: se seguía el colapso de la vida social y cultural; todo el mundo terminaba dándose cuenta; el alcalde de la ciudad los invitaba a volver y se producía la reconciliación. Bettauer fue asesinado en 1925 por un fanático nazi. En 2023, en un debate televisivo, una chica preguntó a un líder del partido FPÖ, Gottfried Waldhäusl, qué hubiese sucedido si los extranjeros no hubieran sido recibidos. El respondió: «Entonces Viena sería todavía Viena». El diario Der Standard publicó entonces una proyección estadística: si los extranjeros se fuesen, tanto la administración pública como los servicios de salud colapsarían. La vieja Europa precisa trabajadores. Sin embargo, el debate en torno a la inmigración ha alcanzado cotas de acritud inéditas. El pasado 1 de septiembre, las elecciones regionales en Turingia y Sajonia mostraron un ascenso de la extrema derecha desconocido desde el período de entreguerras.
¿Cuál podría ser la utopía de nuestros días...? La respuesta se declina en plural: hay muchas posibles. Querría referirme aquí a una: la utopía de la fraternidad cosmopolita.
En Hacia la paz perpetua (1795), Immanuel Kant aborda las condiciones para una paz duradera. Contempla allí presupuestos previos (artículos preliminares) y condiciones estables (definitivos). El tercer artículo definitivo incluye que ningún pueblo ha de poder ser invadido, comprado o desposeído por otro. Kant era consciente de que la práctica colonialista conculca esa condición. De hecho, las formas de colonialismo se han sucedido pasando desde la conquista —como en los Imperios español y portugués— a la dependencia económica, como en las Compañías británica u holandesa de las Indias orientales. Tras la segunda guerra mundial, mientras en Europa occidental se lograba cotas de bienestar inéditas y a pesar de indicios de mejora en la distribución global de la riqueza, la brecha entre los más ricos y los más pobres no ha hecho sino acrecentarse. En no pocos lugares africanos, americanos y asiáticos, eso ha venido acompañado por guerras civiles, radicalización fundamentalista y generalizada corrupción política. Efecto colateral de los desequilibrios económico, social y político ha sido la ola migratoria a la que asistimos. Las escenas conmovedoras vividas en el Mediterráneo —pateras que naufragan en el mar de los cruceros de lujo— se han vuelto acostumbradas.
Es en el Mediterráneo donde se juega simbólicamente la utopía de la fraternidad cosmopolita. Por eso mismo, este mar de antigua memoria, cuna de la civilización europea, puede convertirse en laboratorio de nuevas utopías. Ahora bien: para que el horizonte ideal cristalice en realidades empíricas, limitadas y a la vez efectivas, hay que ponerle pies. Éstos pueden proceder del empuje de grupos sociales y han de ser apoyados por los Estados.
Tenemos ejemplos estimulantes. Entre ellos se hallan las iniciativas del Instituto Social del Trabajo en Valencia, desde programas de formación dirigidos a personas inmigrantes a casas de acogida y proyectos para el empoderamiento personal; el proyecto Erasmus+ MEDITerraNeW, cofinanciado por la Unión Europea, concebido como plataforma de intercambio de experiencias en torno a la migración y la exclusión social; o el proyecto educativo Living Peace International, que promueve la reflexión en torno a la paz en las escuelas. La creciente receptividad social hacia el trabajo de las ONGs, su sostén tributario por parte de los Estados y la colaboración con los ayuntamientos aportan señales positivas. La solidaridad es una dinámica en la que todo el mundo gana: y es que el sueño de la ciudad autárquica, aislada, es una distopía.
Decía el obispo brasileño Hélder Câmara que un modo para espolear la imaginación solidaria de la juventud consiste en regalar a cada niño, a cada niña, un mapamundi. ¡Cómo son de grandes el mundo y sus retos...! La utopía, a modo de clave del pensar, nos entrena para lo mejor: es esa potente idea que crea realidades magníficas.
jueves, 21 de noviembre de 2024
DANA, ciudadanía: manifiesto de la gratitud
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Artículo propio publicado en el diario Levante (13/11/2024). En la imagen, obra de Antonio Muñoz Degraín pintada entre 1912 y 1913 y conservada en el Museo de Bellas Artes de Valencia: "Amor de madre".
sábado, 24 de agosto de 2024
Ultradreta: l'antítesi del trellat
El 28 de juliol del 1925 es publicà el primer volum de l’obra d’Adolf Hitler Mein Kampf (La meva lluita). Hi donava veu al descontent: a les elevades xifres d’atur i la inflació contribuïa la restitució de deutes de guerra arran del Tractat de Versalles. Hitler hi responia amb conceptes clars: culpabilització d’un grup ja estigmatitzat per les seves connexions amb l’elit financera (els jueus); injecció d’autoestima mitjançant una teoria que xifrava les fortaleses psico-biològiques en una raça (els aris); horitzó expansiu, per tal d’aconseguir espai vital, cap a altres territoris (els països de l’Est)... Tals conceptes implicaven receptes senzilles. La seva realització, a partir de la pujada al poder el 5 de març del 1933, dugué a anys d’optimisme: arran de les polítiques autàrquiques i de la producció d’armament, l’atur pràcticament desaparegué; la qualitat de vida de les famílies millorà a ulls vista; l’Imperi alemany s’expandia sense aturall.
Tanmateix, les solucions fàcils solen ser falsos amics. El fugisser progrés del III Reich es construí trepitjant milions de vides i conculcant drets humans. El 1945, les ciutats alemanyes mostraven un espectacle esfereïdor de runes sobre runes. No: les solucions ximples a problemes complexos sovint no resolen res.
La ultradreta europea és hereva de les arrels ideològiques del feixisme. Mutatis mutandis i malgrat diferències internes, les seves faccions mantenen postures coincidents: euro-escepticisme, que pot arribar fins a la proposta d’eixida i desintegració de la Unió europea, com ara en la Rassemblement National de Marine Le Pen a França [RN, Reagrupació Nacional] o en l’Alternative für Deutschland de Tino Chrupalla i Alice Weidel [AfD, Alternativa per a Alemanya]; assenyalament de la immigració com a arrel problemàtic, junt amb projectes –com en l’AfD– per a fer tornar fins i tot immigrants que ja han assolit la ciutadania; rebuig de la perspectiva macro –respecte dels problemes ecològics o les polítiques comunes de defensa– per a focalitzar allò que succeeix a les pròpies regions, com ara a la PVV de Geert Wilders als Països Baixos o a la FPÖ de Herbert Kickl a Àustria. Tot i això, les postures sobre la invasió d’Ucraïna per part del govern rus de Vladímir Putin difereixen: recolzada per RN, criticada per AfD. Més homogènia, en canvi, la simpatia envers Donald Trump, en qui es veuria reflectida la política autàrquica que hom desitja per als respectius països.
Passat 9 de juny, les eleccions al Parlament europeu han palesat la crescuda d’aquestes forces als principals països per població i PIB de la Unió: Alemanya, França, Itàlia, Espanya, Polònia. Cridanera resulta la pujada del vot entre els joves: al voltant d’un de cada quatre. A Espanya, a VOX li ha sorgit competència, amb una força el projecte concret de la qual s’ha d’enllestir encara i que ha fet campanya sobretot a les xarxes socials: Se acabó la fiesta (SALF). A França, tot això ha dut el president Emmanuel Macron a convocar eleccions anticipades, en una jugada d’efectes imprevisibles. És molt el que s’està debatent al voltant d’aquest terrabastall polític i del projecte de la ultradreta.
Al meu juí, de projecte assenyat no n’existeix cap. Hi ha, sí, un programa d’actuació: ideològicament més definit en el cas de RN o de AfD, menys articulat en el de VOX o fins i tot boirós en el de SALF. Nogensmenys, allò que hi traspua està teixit de solucions ximples; eixes que a llarg termini no solucionen res, sinó que ho compliquen tot.
Els euroescèptics obliden els enormes avantatges aportats per les polítiques comunes: com han permès redistribuir la riquesa a tot arreu de la UE, o donar suport a projectes científics i industrials capdavanters, o abordar l’emergència sanitària per COVID-19. Més encara: obliden que gràcies al projecte comú, incoat com a unió econòmica amb el Tractat de Roma (1957), un continent esquinçat per guerres caïnites ha arribat a viure en pau, amb una real connexió política, econòmica, social i vital entre les seves poblacions. D’altra banda, pretendre que cada Estat hauria de protegir-se renunciant a la moneda o a les polítiques comunes resulta foraviat: el somni de l’autarquia no pertany a la nostra època. Reduir les eines de supervisió política de l’economia constitueix altra tornada enrere; almenys, per a aquells que, a diferència de Javier Milei, no considerem que la justícia social sigui “aberrant”. Pretendre una defensa eficaç en solitari, front l’amenaça creixent d’un imperialisme reviscolat com el rus, no va enlloc; més encara, quan s’albira una possible tornada de Trump ala presidència estatunidenca.
La ultradreta es fa ressò d’insatisfaccions que ella mateixa exacerba. Sovint ho fa amb arguments demagògics; sempre, amb l’oblit d’allò que la democràcia i laUE han aportat al progrés i a la concòrdia. Vet ací perquè no s’encabeixen als mitjans de comunicació, on cal desplegar discursos oberts a la crítica. Llur lloc són les xarxes, mitjans de difusió capil·lars on troben l’humus als espais més esbiaixats. Catalitzen un malestar que no es correspon pas amb el nivell de vida que els països europeus han arribat a gaudir.
Ço no significa pas que no s’hagi de posar remei a problemes trasbalsadors, com ara l’accés a l’habitatge per part del jovent; les llistes d’espera al servei públic de salut; o les condicions sagnants del treball agrícola. Cal sumar-hi la nostra responsabilitat envers els països en vies de desenvolupament i la necessitat de compromisos eficaços a favor de la pau i per a combatre la pobresa a nivell global. Fer tot això, i fer-ho al mateix temps que s’afronta els desafiaments del canvi climàtic, de la intel·ligència artificial o del nou marc de treball, requereix solucions complexes, perspectiva de conjunt. Per assolir-les cal reflexionar a fons sobre la història, sobre el present i el futur.
L’extrema dreta no ofereix solucions complexes, adients a reptes globals. Reacciona a onades emocionals que aprofita a cop de missatge curt i colpidor. En les aigües procel·loses del món actual, la ultradreta es mou sense seny i sense aturall, com cagalló per sèquia.
Europa farà malament a lliurar-se a eixa exaltació emocional, a eixa mancança de trellat. Els precedents són massa esfereïdors com per a fer-hi ulls clucs. És ora que reaccionem. Podem fer-ho amb el vot, en les diverses convocatòries electorals. Podem fer-ho també, cadascú/na en el seu àmbit de responsabilitat, tot actuant des de la viva consciència que la pau requereix solucions complexes. Per a assolir-les cal respecte als drets de la Humanitat en cada ésser humà. Cal reflexió i sensibilitat. Cal trellat.
domingo, 21 de abril de 2024
Has de cambiar tu vida
Permítanme empezar refiriéndome a otro autor cuyo apellido comienza por K. Se cumplen cien años desde que falleció Franz Kafka. En El País, Monika Zgustova ha aludido al modo en que anticipó los desarrollos más sombríos del siglo XX: “En su obra, Kafka había descrito con lucidez y precisión el funcionamiento de la arbitrariedad, una de las características de los totalitarismos” (“¿Por qué somos kafkianos?”, 23/12/2023). Hoy son muchas las señales que nos llevan a barruntar escenarios kafkianos, en Europa y otros lugares.
Pero este año celebramos también otro aniversario. El 22 de abril de 1724 nacía en Königsberg uno de los filósofos cuya existencia supone un antes y un después en la historia de las ideas: Immanuel Kant.
Cuando se aborda el estudio de un pensador, vale la pena identificar lo que le preocupa y le mueve. Es como encontrar la quilla de la nave. Desde su juventud, Kant constató la disparidad de las escuelas filosóficas y la dificultad a la hora de lograr puntos de encuentro. En el segundo prólogo a la Crítica de la razón pura aludió a la metafísica, entonces reina de las disciplinas filosóficas, como “campo de batalla”. Hallar el espacio común donde entenderse resulte posible: he aquí el motor de la filosofía desde sus orígenes griegos. Kant prolonga esa herencia, fundadora de nuestra civilización.
Durante este año, a lo ancho y largo de todo el planeta se celebran conferencias, jornadas y congresos. La sociedad kantiana más antigua del mundo, la Kant-Gesellschaft, decidió celebrar también ahora su congreso internacional. El lugar, evidente de suyo: Königsberg. Los colegas de Rusia, liderados por Nina Dmitrieva, se pusieron manos a la obra; alentado por la promesa de visibilidad en la comunidad científica, el gobierno ruso aportó financiación ingente.
A raíz de la invasión de Ucrania, varios miembros de la Junta directiva de la Kant-Gesellschaft manifestamos nuestros reparos. Y es que Königsberg se llama hoy Kaliningrad y es el puerto ruso más militarizado. No imaginábamos que la guerra se prolongaría tanto, pero ya asistíamos al éxodo de millones de personas. Mi oposición fue en línea de principio: no debíamos mantener el congreso en un marco que conculca lo esencial de la obra kantiana. Finalmente, se optó por trasladar la sede a Bonn. En España habrá multitud de actos y dos grandes citas internacionales, en Santiago de Compostela y Valencia. La página web kant2024.org permite recorrer una línea del tiempo jalonada por eventos previstos en todo el mundo.
Desde la criminal invasión de Ucrania por el gobierno de Vladimir Putin hasta la inhumana respuesta de Benjamin Netanjahu al terrorismo asesino de Hamás, pasando por el auge populista en Alemania, Austria, Hungría, Italia, Polonia o España, los escenarios kafkianos se multiplican. Pensemos en el surrealista ascenso de Javier Milei en Argentina o la amenaza del regreso de Donald Trump en Estados Unidos, aún más inquietante por su connivencia con las tendencias antidemocráticas de los regímenes ruso y chino. El aire de familia con el caldo de cultivo que aupó los fascismos al poder, hace ahora un siglo, resulta espeluznante.
“Sería ingenuo reducir unos procesos sociales tan complejos a una cuestión del mal contra el bien”, escribía Amanda Mauri en estas páginas. Desarticular el discurso del repliegue tribal “no pasa por librar una guerra de superficies, sino por subvertir la lógica en la que este se apoya para existir” (“La marca del profeta ultra”, 6/2/2024). Justamente aquí, a la vista de los desafíos que nos incumben, Kant tiene mucho que decirnos.
Su obra teórica, que hace hincapié en las condiciones universales posibilitadoras del conocimiento intersubjetivo; su filosofía práctica, presidida por la autonomía y la dignidad humanas; su estética, animada por el libre juego de las facultades: en todos estos ámbitos se hallan estimulantes acicates para el pensamiento actual. El motor, un ideal político: y es que el corazón palpitante de su obra reside en la filosofía de la paz. Kant es suficientemente realista para percibir que muchos intereses conspiran en contra. Por eso aporta propuestas concretas, cuya influencia ha sido y es inmensa en aras de una sociedad multicultural y cosmopolita.
Hoy, como ayer, es preciso volver a Kant. Quienes aprecian sus ideas serán espoleados a pensar más allá. Para un kantiano heterodoxo como yo, se trata de un compañero de viaje: un amigo que, como un lecho duro –la imagen viene de Friedrich Nietzsche–, mantiene viva la inquietud del pensar. Quienes se adhieren a otras concepciones hallarán en él un interlocutor honesto. No se trata de ser kantianos, sino de dejarnos interpelar por Kant.
Hay unos versos de Rainer Maria Rilke que giran en torno a un hermoso busto antiguo. Al contemplarlo, el poeta percibe que tanta belleza le llama a ensanchar su horizonte, a crecer. El poema se titula Has de cambiar tu vida. Una figura como la de Immanuel Kant nos exhorta a renovarnos, a hacernos dignos de lo bueno y mejor. Vale la pena celebrar su tricentenario.
sábado, 26 de febrero de 2022
Putin a Ucraïna: com l'home del neolític
El 2017, Itàlia participà al festival d’Eurovisió amb una cançó ben engrescadora: “Occidentali’s Karma”. La lletra feia la guitza a aquells que, tot i moure’s en la sofisticació digital, pensen amb esquemes primitius: “La intel·ligència ha passat de moda / respostes fàcils / dilemes inútils”. Junt amb Francesco Gabbani, l’autor i solista, a l’escenari hi pujava un gran mico, que s’hi posava a ballar vestit amb corbata de llacet: “Per a tots una hora d’ària, de glòria / la gentada crida un mantra / l’evolució ensopega / el mico nuet balla”. Tot molt modern: “Contemporani com l’home del neolític”.
En la vida hi ha molt d’estira i arronsa. Volem aconseguir coses, volem viure millor, volem reconeixement. Aspirar-hi fa part de l’estructura psicofísica de l’ésser humà i de l’existència política dels pobles. En els primers estadis de la filogènesi i de la història humanes, eixes pulsions es resolen només amb la força bruta: amb la submissió i, si es possible, l’extermini de l’altre. Signe d’evolució cultural i de maduresa personal és aspirar a substituir la violència per l’intercanvi de bens, per la persuasió argumental, per consensos on guanyi tothom.
En la tensió Rússia-Ucraïna hi ha, és clar, interessos en joc: de tipus econòmic, polític, geoestratègic, cultural. La ubicació i riquesa natural d’Ucraïna –del carbó i el petroli al gas– en feren l’objecte del desig de Napoleó i Hitler. De l’esclat de la Unió Soviètica ençà, dita tensió ha conegut diverses fases: la independència d’Ucraïna (1991); el seu acostament a l’òrbita de la Unió Europea i de l’OTAN i la tornada enrere arran de les represàlies econòmiques russes (2013); l’annexió de la regió de Crimea a Rússia rere dubtós referèndum (2014); els disturbis a la regió prorussa del Donbass i la treva signada a Minsk (2015); i, des del 2021, l’enviament massiu de tropes russes a la frontera junt amb la intensificació de ciberatacs. El passat dia 21, Rússia reconegué l’autonomia de les províncies de Donetsk i Luhansk.
Fins a aquesta setmana, les reiterades crides d’alerta de Joe Biden tot anunciant la imminent invasió podien semblar adreçades a calfar l’ambient a propi benefici polític. Els fets han mostrat que es tractava d’una estratègia d’exposició: tot publicant la informació secreta que el Pentàgon tenia a l’abast, es desemmascarava els propòsits del Kremlin.
I així hem arribat a les sis del matí de dijous. Vladímir Putin escenifica el seu moment de glòria: la seva ària. El text que interpreta no té deixalla. Al discurs, retransmès mitjançant totes les cadenes estatals russes, Putin es refà a exemples d’ús de la força en el món posterior a la desintegració de la URSS –com ara les actuacions internacionals a Iraq, Líbia o Síria– per a desembocar en un diagnòstic de “degradació i degeneració” del món occidental, una amenaça que posa en paral·lel a la invasió nazi, per a la qual la Unió Soviètica no es va preparar: “No cometrem aquest error una segona vegada”.
L’analogia sembla freudianament reveladora; sobretot si la invasió –més enllà de pretendre la desmilitarització– duu a eixamplar l’espai vital de Rússia. Amb raó ha dit Josep Borrell que “es tracta d’una de les hores més fosques per a Europa des de la segona Guerra mundial”. No hem de fer ulls cecs a les greus errades en l’ús de la força que s’han esdevingut en les darreres dècades per part d’actors occidentals; tampoc, al manteniment de la política de blocs en l’estratègia expansiva de l’OTAN. Tot això però no amaga que Putin ha fet una passa que podia haver substituït per les vies de la negociació. Es tracta d’una jugada sense trellat, amb cost de vides humanes i riscos impredictibles: una demostració de força sense seny.
Moltíssimes de les persones que han seguit el missatge de Putin se l’han escoltat perplexes, esgarrifades. El mico nuet balla. Tanmateix no és un mico, ni un bon grapat que hi balla al voltant. Els micos conreen llaços d’afecte i d’odi a vegades tendres, d’altres esborronadors; no posseeixen però eines conceptuals per a dur a terme abstraccions teòriques i decisions deliberades. No poden persuadir amb arguments, ni arribar a consensos en ordre a un bé superior. L’ésser humà, sí: fa part de la seva glòria; quan hi fracassa, és la seva tragèdia. Contemporani com l’home del neolític.
Putin en Ucrania: como el hombre del neolítico
En 2017, Italia participó en el festival de Eurovisión con una canción muy estimulante: “Occidentali’s Karma”. La letra ponía el dedo en el ojo de aquellos que, aun moviéndose en la sofisticación digital, piensan con esquemas primitivos: “La inteligencia ha pasado de moda / respuestas fáciles / dilemas inútiles”. Junto con Francesco Gabbani, el autor y solista, subía al escenario un gran mono, que se ponía a bailar vestido con pajarita: “Para todos una hora de aria, de gloria / la multitud grita un mantra / la evolución tropieza / el mono desnudo baila”. Todo muy moderno: “Contemporáneo como el hombre del neolítico”.
En la vida hay mucho de tira y afloja. Queremos conseguir cosas, queremos vivir mejor, queremos reconocimiento. Aspirar a ello forma parte de la estructura psicofísica del ser humano y de la existencia política de los pueblos. En los primeros estadios de la filogénesis y de la historia humanas, esas pulsiones se resuelven sólo con la fuerza bruta: con el sometimiento y, si es posible, el exterminio del otro. Signo de evolución cultural y madurez personal es aspirar a sustituir la violencia por el intercambio de bienes, por la persuasión argumental, por consensos donde gane todo el mundo.
En la tensión Rusia-Ucrania hay, naturalmente, intereses en juego: de tipo económico, político, geoestratégico, cultural. La ubicación y riqueza natural de Ucrania –del carbón y el petróleo al gas– hicieron de ella objeto del deseo de Napoleón y Hitler. A partir del estallido de la Unión Soviética, esa tensión ha conocido varias fases: la independencia de Ucrania (1991); su aproximación a la órbita de la Unión Europea y la OTAN y la vuelta atrás a raíz de las represalias económicas rusas (2013); la anexión de la región de Crimea a Rusia tras un dudoso referéndum (2014); los disturbios en la región prorrusa del Donbás y la tregua firmada en Minsk (2015); y, desde 2021, el envío masivo de tropas rusas a la frontera junto con la intensificación de los ciberataques. El pasado día 21, Rusia reconoció la autonomía de las provincias de Donetsk y Lugansk.
Hasta esta semana, podía parecer que las reiteradas alertas de Joe Biden anunciando la inminente invasión buscaban caldear el ambiente con miras al propio beneficio político. Los hechos han mostrado que se trataba de una estrategia de exposición: publicando la información secreta que tenía al alcance, el Pentágono desenmascaraba los propósitos del Kremlin.
Y así hemos llegado a las seis de la mañana del jueves. Vladimir Putin escenifica su momento de gloria: su aria. El libreto que interpreta no tiene desperdicio. En el discurso, retransmitido por todas las cadenas estatales rusas, Putin se remite a ejemplos de uso de la fuerza en el mundo posterior a la desintegración de la URSS –como las actuaciones internacionales en Irak, Libia o Siria– para desembocar en un diagnóstico de “degradación y degeneración” del mundo occidental, una amenaza que pone en paralelo a la invasión nazi, para la que la Unión Soviética no se había preparado: “No cometeremos este error una segunda vez”.
La analogía parece freudianamente reveladora; sobre todo, si la invasión –más allá de pretender la desmilitarización– lleva a ensanchar el espacio vital de Rusia. Con razón ha dicho Josep Borrell que nos encontramos en “las horas más oscuras desde la segunda Guerra mundial”. No hemos de cerrar los ojos a los graves errores en el uso de la fuerza que han tenido lugar en las últimas décadas por parte de actores occidentales; tampoco, al mantenimiento de la política de bloques en la estrategia expansiva de la OTAN. Sin embargo, todo ello no oculta que Putin ha dado un paso que podía haber sustituido por las vías de la negociación. Se trata de una jugada sin fuste, con coste de vidas humanas y riesgos impredecibles: una demostración de fuerza sin cordura.
Muchísimas de las personas que han seguido el mensaje de Putin lo han escuchado perplejas, horrorizadas. El mono desnudo baila. Ahora bien, no es un mono, ni un buen puñado de ellos que baila en torno. Los monos cultivan lazos de afecto y de odio que a veces son tiernos y otras ponen los pelos de punta; pero no poseen las herramientas conceptuales para llevar a cabo abstracciones teóricas y decisiones deliberadas. No pueden persuadir con argumentos, ni llegar a consensos en orden a un bien superior. El ser humano, sí: forma parte de su gloria; cuando fracasa, es su tragedia. Contemporáneo como el hombre del neolítico.
domingo, 9 de enero de 2022
Per què hi ha negacionistes?
La persona amb qui parlava m’era coneguda d’un grapat d’anys ençà. És afable i encantadora. L’altre dia encetàrem conversa sobre les vacunes. Vaig adonar-me que no se’n refiava, li semblaven perilloses; s’havia vacunat només per a beneficiar-se del passaport COVID.
Al meu precedent article al Levante-EMV (“Vacunació i llibertat”) vaig abordar els arguments del negacionisme. Com sol succeir-nos quan treballem amb idees, pensí que amb refutar-los n’hi havia prou per a convèncer. La conversa de l’altre dia va fer-me reflexionar.
– Els experts reblen l’eficàcia de la vacuna, deia jo. – Muchos especialistas están en contra, deia el meu interlocutor. – Eixos pretesos especialistes són pocs; sovint no són pas experts. – Los que defienden las vacunas son voceros de los políticos. – A un país com el nostre, els polítics no censuren les dades sanitàries. – La gente se muere igual con las dos dosis. – En introduir-se la vacuna, les morts per coronavirus a les residències d’ancians cessaren. – Los ancianos no se morían por eso. – Els països amb baixos nivells de vacunació decreten nous confinaments. – La gente sale en tromba exigiendo la libertad de no vacunarse. – Sense vacuna, contagiar-se pot tenir efectes molt greus, amb la consegüent pressió hospitalària. – En países como Estados Unidos, con Trump, todo ha ido bien, etc.
En dir-li que estava mal informat sobre les vacunes: tú tienes tu información, yo tengo la mía. No llegeix cap diari, no escolta cap radio ni veu televisió. S’informa només a les xarxes socials.
Un punt crucial. Els mitjans de comunicació posseeixen eines de control; allò que s’hi publica no és infal·lible, però ha passat filtres de qualitat. Substituir-los per declaracions sense filtre no té trellat. He constatat com vídeos pretesament informatius circulen per grups de whatsapp. Una vegada vaig prendre’m el temps d’analitzar-ne un, “The big reset”. Tots i cadascun dels seus arguments estaven refutats per autoritats en genètica i virologia, a més de pels efectes de la vacuna. Vaig exposar-lo al grup. L’endemà, la persona que l’hi havia remès va mantenir la seva opinió... com si sentís ploure.
Per al negacionista, allò fonamental és que ningú no li imposi res. Una cridanera escissió: d’una banda, pretén de ser absolutament lliure; d’altra, pensa que la societat li està absolutament obligada. Vol rebre tots els beneficis que la col·lectivitat possibilita; eixa mateixa col·lectivitat que ell, sovint per por, posa en perill.
Front eixe capteniment, el passaport COVID em sembla una mesura encertada: molts negacionistes es vacunen; si més no, per interès propi. Quan llur percentatge és elevat, la vacunació obligatòria esdevé mesura de salut pública: altrament tenen lloc morts evitables, es fa trontollar el sistema hospitalari i s’arrisca nous confinaments, socialment i econòmica destructius.
I tanmateix, hi roman un problema. El negacionista s’adhereix a visions individualistes, que bandegen el reconeixement dels deures envers l’altre; així, la societat s’afebleix front la demagògia. Els feixismes han aprofitat eixa feblesa. Per ço el negacionisme és el símptoma, disfressat d’aspiració a la llibertat, d’un perill per a la democràcia.
Article propi publicat al diari Levante (30/12/2021). En la imatge, un cartell en el marc de la campanya de vacunació a la Comunitat valenciana.